Amazon riduce altri 9.000 posti

Dopo i 18.000 posti annunciati ad inizio anno, un ulteriore 50%.
Lo comunica direttamente l’Ad Jassy.

Un ulteriore 50% di tagli. I 18.000 licenzianti annunciati a inizio anno evidentemente non bastano.

Così Amazon, come riporta Il Sole 24 Ore, rimette testa e mani sui numeri della sua forza lavoro, decidendo di tagliare ulteriori 9.000 posti.

La notizia è emersa da una lettera, firmata dall’amministratore delegato Andy Jassy, inviata nelle scorse ore ai dipendenti:

Vi scrivo per condividere che intendiamo eliminare altre 9.000 posizioni nelle prossime settimane. Questa è una decisione difficile ma che riteniamo sia per il bene della società nel lungo termine”.

Giova ricordare che quella annunciata a gennaio era divenuta, di fatto, la più grande riduzione della forza lavoro nella storia del colosso di Seattle.

A conferma della profonda crisi che sta attraversando il settore tecnologico, eCommerce in testa.

Inizialmente i tagli, avviati in parte già nei mesi finale del 2022, avrebbero dovuto interessare circa 10mila dipendenti, concentrandosi principalmente nella divisione retail di Amazon e nelle funzioni delle risorse umane come il reclutamento.

Col passare dei mesi, e con l’aggravarsi di un contesto macro alle prese con poche certezze, l’azienda di Bezos ha deciso di ripensare i tagli. E con l’annuncio odierno, il totale dei licenziamenti sforza quota 27mila dipendenti.

Questo licenziamento complessivo costituisce il taglio di forza lavoro più consistente mai portato avanti da un’azienda bigh tech nel corso dell’attuale congiuntura economica negativa, ma Amazon ha anche una forza lavoro molto più grande rispetto alle altre aziende della Silicon Valley.

A fine settembre 2022 poteva contare su più di 1,5 milioni di dipendenti.

Dal 2022, i conteggi dei licenziamenti nelle aziende tecnologiche hanno raggiunto circa 300.000 lavoratori, secondo Layoffs.fyi, un sito che tiene traccia dei tagli di posti di lavoro nel settore.

Rigenerazione borghi spopolati: un nuovo modello è possibile

Competenze, formazione, fondi a disposizione: la riqualificazione delle aree spopolate il tema centrale di un convegno organizzato
dall’Osservatorio sulle trasformazioni del lavoro e della formazione continua promosso da FondItalia in collaborazione con il CNR – ISEM.

Sono oltre 6mila i borghi italiani “spopolati”. Il censimento condotto dall’Istat nel 2020, ha portato alla luce che alcune meraviglie del nostro Paese, ormai abbandonate, rischiano, adesso, l’estinzione. Eppure, da qualche anno, parole come Great Resignation e City Quitters sono anglicismi entrati nel gergo comune per esprimere una tendenza contemporanea: rifiutare il modello di sviluppo industriale urbano-centrico stimolato in tutto il Novecento da un sistema sempre più a trazione capitalistica a beneficio della riscoperta di una dimensione locale dove coniugare valorizzazione del paesaggio e recupero delle tradizioni e del patrimonio culturale di piccole comunità.

   Proprio a questi temi è dedicato il convegno “Recupero del patrimonio e innovazione tecnologica: quali opportunità per lavoratori e imprese?” organizzato dall’Osservatorio sulle trasformazioni del lavoro e della formazione continua promosso da FondItalia e il CNR – ISEM Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea in programma a Roma mercoledì 15 marzo nella sala “Gianfranco Imperatori” dell’Associazione Civita, durante il quale saranno presentate case history significative e si discuterà delle strategie messe in campo dall’Unione Europea per il recupero e la rigenerazione dei borghi antichi.

   «L’innovazione tecnologica può favore e stimolare questi processi –spiegano gli organizzatori– conferendo una nuova centralità a territori rimasti ai margini dei processi di sviluppo nel corso del XX secolo». Ma quali strumenti dovrebbero essere impiegati? Quali investimenti potrebbero essere attuati attingendo alle risorse del PNRR? Quali competenze necessitano lavoratori e imprese per dare forma a questo innovativo disegno? A queste e molte altre domande risponderanno i relatori del convegno.

Tra questi, Isabella Cecchini, ricercatrice del CNR – ISEM, che parlerà del “caso Venezia”, ossia dello spopolamento, il consumo turistico e la riqualificazione urbana tra innovazione tecnologica e nuove competenze.

A seguire, la testimonianza di Angelo Cattaneo, ricercatore CNR-ISEM, sulle “unicità aperte” dei villaggi dei cristiani nascosti in Giappone, un caso di recupero minuzioso del patrimonio culturale in territori periferici.

Infine, Gianpaolo Basile, dell’Università Mercatorum, illustrerà le strategie dell’Unione Europea per il recupero dei borghi antichi.

In apertura, i saluti istituzionali di Francesco Franco, presidente di FondItalia; Egidio Sangue, vicepresidente e direttore del Fondo; Nicola Patrizi, presidente di FederTerziario; Luca Malcotti, vicesegretario generale dell’UGL (Unione generale del Lavoro).

A chiudere il convegno, il senatore Claudio Barbaro, sottosegretario del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.

Fallisce Silvergate Bank: Bitcoin sotto i 20mila dollari

Crolla la banca californiana specializzata nelle monete digitali.
Altra chiusura dopo Terra Luna, Celsius e Ftx.

Ennesimo terremoto nel mondo cripto che pesa sulla valuta simbolo del settore.

All’indomani del fallimento di Silvergate Bank, la banca californiana specializzata nelle monete digitali, il Bitcoin scivola sotto 20 mila dollari fino a un minimo di 19.850 per poi rimbalzare leggermente e attestarsi intorno a 19.900 dollari.

Ma cosa ha scatenato il sell-off?

Come riporta Milano Finanza, nei giorni scorsi Silvergate Bank, una banca specializzata in criptovalute, ha annunciato la chiusura.

A dare la notizia è stata la holding Silvergate Capital Corporation che in una nota ha dichiarato la liquidazione «ordinata» delle operazioni dell’istituto di credito su base volontaria.

La banca prevede di rimborsare completamente tutti i depositi. Quotato sul Nasdaq il titolo della casa madre ha reagito bruscamente alla notizia crollando del 42% ai minimi storici, intorno ai 2,84 dollari.

La capitalizzazione della criptobanca si è ridotta a circa 89 milioni di dollari contro gli oltre 7,4 miliardi nel giro di un anno.

Dopo il fallimento di Terra Luna, Celsius e in ultimo Ftx, i correntisti sono corsi a smobilitare le posizioni per paura di restare con il cerino in mano; e così nel quarto trimestre i depositi sono passati da 8,1 miliardi a 3,8 miliardi.

Nel novembre 2021, quando il Bitcoin ai massimi della sua fama valeva oltre 70 mila dollari, le azioni Silvergate venivano scambiate oltre i 200 dollari.

La chiusura dell’istituto non sarà però immediata. Secondo gli analisti, potrebbe richiedere uno o due anni, a seconda della rapidità con cui verranno rimborsati i prestiti in essere e smaltite le attività.

Negli anni il gruppo aveva tessuto forti legami finanziari con l’exchange fondato da Sam Bankman Fried e fallito lo scorso novembre. Gli analisti di Wedbush, in una nota, scrivono così:

Crediamo che questa decisione sia stata presa, almeno in parte, per contribuire a mitigare la responsabilità legale di Silvergate Bank legata al fallimento di Ftx”.

È la prima volta da metà gennaio che il Bitcoin scende sotto la fatidica soglia di 20 mila dollari; dopo cinque sedute in rosso, il 10 marzo la criptovaluta continua a perdere l’8%.

E se da un lato è vero che da inizio anno il prezzo risulta ancora in crescita del +20%, dal picco di febbraio ha perso altrettanto (-18%).

In fondo, dopo le notizie allarmanti in arrivo dal settore, gli esperti avevano iniziato a chiedersi come mai il Bitcoin continuasse a reggere. Anche le altre cripto hanno accusato il colpo.

Nelle ultime 24 ore, Ethereum ha ceduto l’8,5% a 1.400 dollari, Binance il 6,9% a 268,3 dollari e Dogecoin quasi il 10% a 0,06 dollari.

La galassia sembra, dunque, sull’orlo del burrone, di nuovo. La capitalizzazione del settore è scesa sotto i 1.000 miliardi di dollari, ben al di sotto dal mercato dell’oro, stimato intorno ai 12 mila miliardi e soprattutto lontanissima dal mercato azionario mondiale e da quello obbligazionario, che valgono rispettivamente 80 e 128 mila miliardi.

Sapelli: la crisi si ferma lasciando stare i tassi

Dal fallimento della Silicon Valley Bank alll’attuale situazione globale: ecco colpe e rischi.
Lucida analisi del professore su operato, Fed, Bce e Cina.

Il professor Giulio Sapelli è intervenuto su Il Giornale in merito alla recente crisi della Silicon Valley Bank e, più in generale, parlando di politiche monetarie adottate da Usa, Ue e Cina.

Quanto al fallimento della SVB (già affrontato anche qui), sostiene che questo nasca da due eventi critici: l’aumento dei tassi da parte della Fed e l’eccessiva concentrazione di titoli obbligazionari a lunga scadenza in portafoglio.

Più precisamente, le sue parole sono state le seguenti:

La mancata diversificazione degli investimenti è tipica dei manager pagati con stock option: tendono a produrre effetti leva altissimi. Non trascurerei, poi, l’effetto Cina, ossia la decisione di Xi Jinping di escludere dal consiglio del popolo i manager dell’industria hi-tech. Questo ha avuto un effetto dirompente su tutte le Borse mondiali. Il neo-maoismo di Xi Jinping è sempre stato accompagnato da grandi catastrofi economiche i cui effetti hanno raggiunto anche la Silicon Valley”.

Con i tassi bassi era necessaria una certa dose di spregiudicatezza per ottenere rendimenti elevati; e qui arriva il commento dell’economista, ricordando un monito mai nascosto:

I tassi negativi non stanno né in cielo né in terra ma tutti dicevano che andavano bene”.

Vero è che la Fed e la Bce hanno invertito repentinamente la politica monetaria. Su questo punto Sapelli, che è stato vicino ad essere Premier nel primo Governo gialloverde ma che ha poi ricevuto il veto di Mattarella, commenta così:

Chiamiamo inflazione una cosa che non è inflazione perché l’inflazione è l’aumento dei salari che supera la produttività, mentre i salari sono al livello più basso degli ultimi vent’anni. Chiamiamo inflazione un aumento dei prezzi delle materie prime alimentari ed energetiche, prima per effetto della pandemia che è stato un fallimento manageriale perché non si sapeva prevedere che, con migliaia di navi alla fonda, una volta ripresa l’attività sarebbero aumentati i prezzi dei noli marittimi e poi è arrivata l’aggressione russa all’Ucraina. Questa è una forma di monopsonio (accentramento della domanda in unico attore; ndr) come nella crisi petrolifera degli anni 70, una carenza di offerta. La Bce e la Fed non possono curare una inflazione da carenza da offerta con la politica monetaria. Bisogna aumentare la quantità di offerta e non agire sulla moneta altrimenti l’unica conseguenza sarà far fallire imprese e banche”.

Quando gli viene chiesto se “dopo dieci anni di tassi bassi non era necessario intervenire?”, il professore risponde come di seguito?

Non è con la moneta che si risolve il problema, ma con l’offerta. Bisogna aumentare le quantità offerte”.

C’è un rischio di contagio da questo fallimento. Si può fermare il circolo vizioso stretta sui tassi-fallimenti-recessione?

Per ora non c’è nulla di simile alla crisi del 2007-2008 che coinvolse anche assicurazioni e riassicurazioni. La speranza di bloccare la serie di rialzi è affidata a economisti come Fabio Panetta che ha criticato la politica monetaria all’interno della Bce. Ho fiducia anche nel segretario al Tesoro Janet Yellen affinché comprenda che questa politica non porta da nessuna parte. E poiché in America non esiste l’autonomia della banca centrale, una favola che ci raccontiamo in Europa, può indurre la Fed a fermarsi. E poi bisogna costruire una direzione diversa, ritornando alla divisione fra proprietà e controllo. Pagare i manager in azioni è dinamite, vuol dire avere sempre una crisi dietro l’angolo”.

Cina interessata agli asset Enel

Le dismissioni in Perù valgono circa 3 miliardi di dollari.
Dopo Argentina e Romania altre vendite per ridurre il debito.

Gli asset in Perù di Enel finiscono nel mirino dei cinesi.

La China Southern Power Grid Co., società di proprietà statale, starebbe valutando un’offerta vincolante per l’acquisizione delle attività di distribuzione di energia elettrica di Enel in Perù, secondo quanto riportato da Bloomberg e poi ripreso anche da First Online, in quella che potrebbe essere una delle più grandi operazioni transfrontaliere di quest’anno da parte di un acquirente cinese.

Secondo l’agenzia di stampa, le attività di distribuzione peruviane dell’azienda energetica italiana potrebbero essere valutate circa 3 miliardi di dollari.

L’azienda elettrica statale con sede a Guangzhou starebbe lavorando con un consulente finanziario dopo aver partecipato a un secondo round di offerte, ha riferito Bloomberg, aggiungendo che non c’è una conferma dell’offerta, tantomeno la certezza che l’azienda potrebbe prenderla in considerazione.

Intanto il titolo dell’Enel si sgonfia a Piazza Affari (-0,19%) ed il 16 marzo è atteso il Cda sul bilancio del quarto trimestre e del 2022 dopo che la multinazionale dell’energia ha già pubblicato il preconsuntivo.

Il gruppo guidato dall’ad Francesco Starace continua con il progetto di cessione degli asset considerati non core, come ha annunciato a novembre, per 21 miliardi di euro che andranno a ridurre il debito e ad uscire dai mercati del Sud America: dopo Romania e Argentina ora tocca al Perù.

Le attività di generazione e distribuzione di Enel in Perù hanno oltre 1,5 milioni di clienti.

EnelDistribucion Perù fornisce energia elettrica all’area settentrionale della metropolitana di Lima, alla provincia di Callao e le province di Huaura, Huaral, Barranca e Oyon. Ha distribuito 8.441 gigawattora nel 2021.

Negli ultimi anni l’America Latina è diventata un’area strategica per le società cinesi che cercano di espandersi all’estero.

Come scrive Milano Finanza, l’acquisizione degli asset di distribuzione di Enel in Perù aiuterebbe rafforzare la presenza di China Southern Power in America Latina dopo che il gruppo cinese ha acquistato una partecipazione del 28% nell’utility cilena Transelec da Brookfield Infrastructure Partnersper 1,3 miliardi di dollari nel 2018.

Altri gruppi che sono cresciuti tramite acquisizioni nella regione sono State Grid Corp. of China e China Three Gorges Corp.