Trump vieta iscrizione ad Harvard a studenti stranieri

La segretaria all’istruzione: lo stop potrebbe essere esteso ad altri atenei.
L’università: l’azione del governo è illegale.

L’amministrazione Trump ha revocato la possibilità per l’Università di Harvard di iscrivere studenti internazionali.

L’ordine di revocare la certificazione del Programma per Studenti e Visitatori di Scambio (SEVP) è stato dato dal Segretario per la Sicurezza Interna, Kristi Noem, che in un’intervista a Fox ha poi aggiunto come questo sia “un avvertimento a tutte le università“, lasciando intendere che la revoca potrebbe essere estesa ad altri atenei.

Come riporta Il Sole 24 Ore, anche gli studenti stranieri già iscritti dovranno trasferirsi o perdere il loro status legale.

Da parte sua, Harvard ha dichiarato quanto di seguito:

L’azione del governo è illegale. Siamo pienamente impegnati a garantire ad Harvard la possibilità di ospitare studenti e studiosi internazionali, provenienti da oltre 140 Paesi, che arricchiscono l’università – e questa nazione – in modo incommensurabile.

Trump taglia le sovvenzioni ad Harvard

Al centro del dibattito la politica woke e le proteste filopalestinesi.
Linda McMahon (Istruzione): Harvard è gestita in modo disastroso.

L’amministrazione Trump ha comunicato all’università di Harvard, il college più antico e ricco del Paese, che non avrà diritto a nuove sovvenzioni federali.

Una mossa che, secondo alcuni media, sembra un tentativo per costringere l’ateneo a tornare al tavolo negoziale nel quale il governo Usa vuole imporre la sua politica anti woke e contro le proteste filopalestinesi.

Come riporta Ansa, la decisione è stata comunicata in una controversa lettera ad Alan M. Garber, rettore di Harvard, da Linda McMahon, segretario all’Istruzione, che ha criticato l’università per “una gestione disastrosa“.

Podcast per caso: diario sonoro di una musa fuori sede, tra uno straccio e un sogno

Quando anche chi ama scrivere si mette a parlare… e si chiede se qualcuno ascolterà mai.

Partecipare a un corso sui podcast è come essere invitati a un talent show senza saper cantare. Oppure come ricevere in regalo un pianoforte a coda, e tu non solo non sai leggere il pentagramma, ma hai appena capito dove sta il DO. Ti guardi intorno, ti sistemi i capelli, accendi il microfono e pensi: “Io che ci faccio qui?”
Poi qualcuno, con voce entusiasta, ti dice: “Parla di te.”
E lì, cara Musa, ti prende un leggero, elegantissimo attacco di panico.

Perché io, finora, ho sempre parlato con le dita. Ho scritto, scritto, e scritto ancora. Ho fatto dello schermo del mio smartphone un ingorgo permanente di impronte digitali.
E adesso? Dovrei trasformare le parole in voce. In suono. In musica per orecchie altrui. Aiuto.

Nel frattempo, là fuori, è esplosa la podcast-mania. Ce n’è uno per ogni cosa: dalla meditazione al true crime, dalla filosofia in ciabatte alla vita emotiva delle zucchine.
E poi ci sono loro, i podcaster professionisti, quelli con la voce calda e rassicurante, tipo “previsioni meteo dell’anima”.
E io? Io che podcast potrei fare?

Ci ho pensato. Troppo. Ho fatto brainstorming (che ormai è più trendy di “lampi di genio”), ho scarabocchiato idee nei margini dei quaderni del corso. Ne sono usciti titoli tipo:

Pendolare a Milano: sopravvivere con dignità (e una schiscetta)

La collaboratrice scolastica che sognava i Pulitzer

Diario di una Musa che non sta mai zitta – ecco, questo è carino. Mi rispecchia.


Poi ho capito: forse non serve l’idea geniale. Forse serve solo un’idea vera.
Perché chi ascolta i podcast oggi? Gente normale. Gente in treno, in macchina, in pausa pranzo. Gente che cerca compagnia, conforto, o semplicemente una voce che non sia quella dei propri pensieri.

E allora sì, forse potrei farlo.
Potrei raccontare cosa significa trasferirsi a 52 anni, cambiare vita, città, accento. Parlare di scuola, ma non dalle cattedre: dai corridoi.
Raccontare le piccole grandi rivoluzioni quotidiane di chi vive con la valigia piena di sogni, il badge al collo e le parole in tasca.
Potrei parlare della mia terra, di leggende greche travestite da storie familiari, di poesia che sa di spezie, e di piatti che sono dichiarazioni d’amore.

Il mio podcast forse non sarà mai in top ten su Spotify.
Ma se anche solo una persona, una, ascoltando mi dicesse: “Questa potrei essere io”… allora quel microfono avrà avuto senso.

Intanto continuo a imparare, a sperimentare, a prendere appunti… magari vocali.

Perché forse scrivere è casa mia. Ma parlare… parlare è il mio balcone.
E da lì, si vedono passare storie meravigliose.

Fuga cervelli, ricercatore-padre a Mattarella: mio figlio in Danimarca, via da umiliazioni italiane

Lettera di un padre italiano a Mattarella sulla fuga dei cervelli: in Italia sono umiliati, all’estero vanno a ruba.
E il nostro Paese è in declino.

Le scrivo come ricercatore italiano”, ma soprattutto “come padre di un giovane neolaureato: so quanto il tema della fuga dei cervelli Le stia a cuore e proprio per questa sua sensibilità mi rivolgo a Lei con fiducia”. Inizia così l’accorata lettera inviata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da Fabio Di Felice, ricercatore dell’Ingv e soprattutto padre di Matteo, che ha appena completato gli studi alla Copenhagen Business School, in Danimarca, con immediate e brillanti prospettive di carriera.

Nella missiva al capo dello Stato, Di Felice, che è anche membro della segreteria del sindacato Fgu (Federazione Gilda Unams) – Dipartimento ricerca, cita pure i compagni di corso del figlio e si firma come “papà ricercatore, anzi il papà di tutti questi ragazzi”. A Mattarella spiega che loro “sono un esempio di come bravura, impegno e dedizione possano costruire un futuro professionale certo. Con un salario medio di circa 70mila euro lordi annui, lavorano in settori” innovativi e di prestigio, “riuscendo a vivere serenamente e beneficiando di un sistema di welfare che in Italia resta solo un’aspirazione”.

Di Felice aggiunge poi che in Danimarca il merito è valorizzato, mentre in Italia la prospettiva più probabile per molti neolaureati come loro sarebbe stata quella di stage sottopagati, senza contributi né futuro certo. Un percorso umiliante”, in cui “ci si può ritrovare a fare fotocopie o a portare il caffè al ‘capo’ o al professore con cui si collabora, in attesa di un’opportunità che forse non arriverà mai”. Lo studioso Ingv lancia l’allarme “per un’Italia che non può più permettersi di perdere le sue menti più brillanti e volenterose”. L’appello a Mattarella riguarda quindi “un imperativo strategico per il futuro stesso” del Paese, ossia “creare le condizioni perché questi giovani possano restare, o scegliere di tornare”. Infatti, come tanti ragazzi “cercano all’estero un orizzonte che qui stenta ad aprirsi, così la ricerca italiana stessa anela a quello ‘spazio’ – normativo, economico e sociale – per poter respirare, crescere e trattenere i suoi talenti”, conclude.

A raccogliere per primo lo sfogo di Di Felice è stato Eleuterio Spiriti, coordinatore nazionale di FguDipartimento Ricerca, sindacato che da sempre si batte contro la fuga dei cervelli: “Oggi in Italia un ricercatore guadagna cifre lontanissime dai 70mila euro dei nostri giovani in Danimarca e potrebbe non vederli nemmeno a fine carriera. Ma più in generale pesa la scarsa considerazione del Paese nei confronti del nostro lavoro. Un vero peccato, dato che l’economia italiana soffre cronicamente di bassa produttività, figlia anche della carenza di innovazione cui la ricerca, di base e applicata, dà un contributo decisivo”. Spiriti infine chiosa: “La ministra Bernini ha detto due giorni fa che non teme la fuga dei cervelli perché i nostri ragazzi si arricchiscono all’estero e poi tornano. Il problema è che invece nella stragrande maggioranza dei casi restano fuori, per le migliori condizioni di vita e prospettive professionali. Il nostro sistema spende in media ben oltre 100mila euro per formare un talento che poi, con le sue capacità, arricchirà altre comunità nazionali. Una situazione che deve cambiare – conclude – e per la quale non possiamo che appellarci alla sensibilità e alla saggezza del presidente Mattarella”.

Caro Chatbot, scrivi tu?

Quando la tecnologia tenta di sostituire la creatività.

Non ho più il controllo del mio tempo. Voglio essere più produttiva, più incisiva. Quando scrivo, voglio trascinare il lettore dentro le mie parole, tenerlo incollato alla pagina, costringerlo a restare fino alla fine, senza scampo. Voglio che arrivi all’ultima riga con il fiato corto e il cuore in gola.

Mi siedo alla scrivania. Ieri ho fatto pulizia: via il superfluo, spazio alle idee. Foglio bianco davanti a me, penna scorrevole tra le dita. Perfetto. Adesso scrivo.

Uno, due, tre minuti. O forse ore.

Niente.

La mia mente è un deserto. No, peggio. È piena di pensieri inutili e molesti. Devo fare la spesa. Dovrei mettermi a dieta. Ho pagato la bolletta?

Devo uscire da questo loop.

— E ti pare facile?

Lo dico al foglio bianco. Lui mi guarda, impassibile. Giudicante.

Poi, un lampo.

— Potrei chiedere un aiutino.

L’IA! Il miracolo tecnologico che salva gli scrittori in crisi. Il chatbot che tutto sa e tutto può.

— Io ci provo. Vediamo che ne esce.

Apro il laptop.

— Ciao, dammi un’idea brillante per un racconto!

L’IA non si fa attendere:

IA: Certo! Un matrimonio tra due giovani, ostacolato da un signorotto potente!

Rimango impietrita.

— Ma questi sono I Promessi Sposi!

L’IA non si scompone.

IA: Ok, allora… un gruppo di giovani rinchiusi in una casa per dieci giorni.

Sgrano gli occhi.

— Questo è Il Decamerone!

Silenzio. Guardo lo schermo. Lo schermo guarda me.

Forse un giorno l’IA scriverà romanzi migliori dei miei.

IA: Secondo le statistiche, il 72% dei lettori non noterà la differenza!

Sorrido, chiudo il laptop. Prendo la penna.

— Sì, ma io voglio scrivere per il restante 28%.

Sipario

Ma prima che si chiuda del tutto, voglio lasciarvi una mia riflessione.

Se persino uno scrittore navigato può cadere nella tentazione di farsi scrivere un’idea dall’IA, o addirittura un testo, cosa succede ai più giovani? A quelli che devono ancora scoprire il brivido della pagina bianca, il piacere di cercare la parola giusta, la soddisfazione di un’idea che nasce dal nulla e prende forma, il piacere di scervellarsi a trovare la soluzione ad una funzione matematica?

L’IA risponde veloce, è brillante, non sbaglia la grammatica (quasi mai). Ma può insegnare il pensiero critico? Può sostituire il percorso, gli errori, i fogli accartocciati e le notti insonni che trasformano un pensiero vago in una storia indimenticabile, registrare un pensiero mentre corri al lavoro, perché hai paura di scordarlo?

Forse il vero rischio non è che l’IA scriva al posto nostro. Ma che ci faccia dimenticare quanto sia bello farlo da soli.

E su questo, il chatbot non ha nulla da aggiungere.