Turismo, Maldive: accesso al lusso per tutta la famiglia

Alla scoperta del resort Cinnamon Dhonveli Maldives nominato tra i migliori hotel del 2024, secondo TripAdvisor.

Il resort Cinnamon Dhonveli Maldives, una delle quattro strutture del gruppo Cinnamon Hotel & Resorts, sta attirando l’attenzione su di sé per una combinazione di fattori portanti, fra cui essere inserita nel 10% dei migliori hotel del mondo dai viaggiatori su TripAdvisor, offrire molte attrazioni sull’isola, così da renderla fruibile per varie tipologie di turisti e famiglie, e non per ultima, la sostenibilità che contraddistingue l’isola e l’hotel.

Sport acquatici, escursioni, pacchetti avventura, serf e tante altre attività presenti sul territorio delle Maldive, sono la risposta alla domanda che molti si pongono: lusso e famiglia possono viaggiare insieme? Sembra proprio di sì, e a confermarlo è anche il famosissimo sito di recensioni Tripadvisor che ha inserito il resort Cinnamon Dhonveli Maldives, l’isola dell’avventura, tra i migliori hotel del 2024.

Le Maldive, conosciute soprattutto per viaggi relax e lune di miele, offrono in realtà molti spunti per pianificare una vacanza a prova di divertimento, senza stress e ideale per tutta la famiglia.

Il gruppo Cinnamon Hotels & Resorts, una catena diversificata di hotel che abbraccia lo Sri Lanka e le Maldive, membro di John Keells Holdings PLC, uno dei più grandi conglomerati quotati in Sri Lanka, è presente alle Maldive con quattro strutture alberghiere che soddisfano differenti tipologie di clientela e richieste.

Cinnamon Dhonveli Maldives si trova a 13 km da Malé ed è raggiungibile in circa 20 minuti in motoscafo.

La vicinanza e la diversità di Cinnamon Dhonveli la rendono una delle destinazioni più popolari delle Maldive.

Con il rinomato punto surf, Pasta Point, famoso per le sue onde costanti di 1,2 – 1,8 metri, l’isola è costantemente animata da surfisti, subacquei e appassionati di spiaggia che trovano terreno comune nell’eccitante mondo che questa piccola isola ha da offrire.

L’impegno sul fronte della sostenibilità invece, rende il resort Cinnamon Dhonveli Maldives, e tutto il gruppo Cinnamon, ancora più credibile e ricco di iniziative.

Questa catena alberghiera nelle sue operazioni tiene alto l’obiettivo di proteggere e preservare l’ambiente attraverso operazioni di riduzione di consumo di acqua e energia, riutilizzo materiali di imballaggi, attività operative volte alla prevenzione dell’inquinamento di acqua, aria, inquinamento acustico, termico e dell’ecosistema marino.

Omosessualità: ecco dov’è illegale nel mondo

Le pene vanno dal carcere alla pena di morte, passando per il ricovero psichiatrico.
Ecco la lista dei Paesi in cui l’omosessualità è reato: meglio non visitarli se siete una coppia lgbtq+.

Mentre prendono sempre più piede le manifestazioni lgbtq+, ci sono degli Stati al mondo che considerano l’omosessualità un reato.

Un reato da punire con il carcere e/o il ricovero psichiatrico, per esempio.

Di seguito, la lista redatta da Stars Insider che, se siete una coppia lgbtq+, forse non vi conviene visitare.

L’Afghanistan, dove si può arrivare alla pena di morte per il reato di relazioni tra lo stesso sesso; l’Algeria, che prevede sanzioni economiche e carcere.

Bangladesh, dove si può arrivare all’ergastolo; Brunei, che prevede la morte per lapidazione anche nel caso in cui maschio si spacci per donna e viceversa.

Burundi, Camerun, Chad e Marocco prevedono carcere e multe; Cecenia, dove si verificano rapimenti ed uccisioni.

In Dominica un adulto può rischiare da quattro a dieci anni di prigione e il ricovero in un ospedale psichiatrico; Egitto, che prevede il carcere e l’eventuale ricovero in un “riformatorio speciale”. Poi l’Eritrea ed il Myanmar, che prevedono il carcere mentre in Eswatini ed in Namibia la pena non è precisata.

Ancora, l’omosessualità è reato in Etiopia, Ghana, Grenada, Kenya, Kiribati, Kuwait, Libano, Liberia, Libia, Malawi, Oman, Palestina, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Samoa, Senegal, Isole Salomone, Sudan, Sudan del Sud, Sri Lanka, Siria, Tunisia, Turkmenistan, Tuvalu, Uzbekistan, Zambia, Papua Nuova Guinea e Guinea, dove viene punita con la galera, in Gambia e Guyana, dove si rischia anche l’ergastolo.

L’Iran prevede la fustigazione e la morte, la Malesia e le Maldive prevedono la fustigazione ed il carcere, la Giamaica il carcere ed i lavori forzati.

In Mauritania si può essere lapidati oltre al carcere.

In Nigeria è previsto il carcere ma nei posti in cui vige la sharia anche la pena di morte; discorso simile in Pakistan, dove sono previsti carcere e sanzioni ma anche frustate o morte dove vige la sharia. In Qatar stessa regola: carcere ma anche pena di morte dove vige la sharia.

Sulla stessa lunghezza d’onda la Somalia, dove è previsto il carcere ma anche la pena di morte dove vige la sharia.

In Arabia Saudita scatta la lapidazione, mentre in Sierra Leone e Tanzania l’ergastolo.

Ancora, in Togo ed nello Zimbabwe sono previsti galera e multe; a Tonga la galera e la fustigazione.

In Uganda oltre all’ergastolo è prevista la pena di morte nel caso di “omosessualità aggravata”. Negli Emirati Arabi Uniti è previsto il carcere ma si rischia anche di entrare nel “crimine capitale”.

Nello Yemen gli uomini sposati possono essere condannati a morte, mentre quelli non sposati rischiano frustate o un anno di prigione, mentre le donne rischiano fino a sette anni di prigione.

L’India cambia nome

Dopo Bangladesh, Myanmar e Sri Lanka, altro cambio di nome per staccarsi dal passato.
Ecco il nuovo nome.

Dal 18 al 22 settembre il parlamento indiano si riunirà in sessione straordinaria.

L’agenda dei lavori non è nota, ma spifferi di palazzo raccontano che in quei giorni sarà depositata la proposta ufficiale per il cambio di nome dell’India in “Bharat”, stando a quanto riporta Italia Oggi.

Nel corso del vertice, a Nuova Delhi, il nome “Bharat” ha sostituito (e non affiancato) il toponimo “India”.

È accaduto prima dell’evento, su un invito a cena agli ospiti, firmato da Droupadi Murmu, capo di stato del paese, che si è qualificata: «Presidente del Bharat».

Durante il G20, alla conferenza di apertura del summit, dove il posto di Modi recava la scritta “Bharat”.

Infine, in un documento diffuso dal portavoce del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito al governo, espressione del nazionalismo indù: il testo riguardava una riunione fra India e Asean (l’associazione dei paesi del sud est asiatico) e definiva Narendra Modi: «Primo ministro di Bharat».

Occhio, tutto ciò non è una mera trovata elettorale del premier indiano, al potere dal 2014 e atteso alle elezioni generali nel maggio 2024, è un fattore di natura geopolitica.

Il nome “Bharat” è già nella costituzione indiana, all’art. 1, assieme al più conosciuto “India”; è anche sui passaporti, ma non è mai stato usato fuori dal paese, nei consessi ufficiali.

A sancirne il debutto al G20 non è stato Modi, espressione della maggioranza, ma la presidente, rappresentante del paese.

Il termine è in sanscrito, deriva dagli antichi testi religiosi indù ed è presente anche nell’opera epica più rilevante della nazione, il “Mahabharata”.

Per il popolo indica l’India stessa, nella sua accezione più autentica, riferita alla religione dominante, ovvero l’induismo.

Anche “India” e “Hindustan” (dal persiano) sono nomi antichi della nazione, legati al fiume Indo che attraversa il paese, ma il primo si è imposto da Occidente, con l’arrivo di Alessandro Magno su quelle sponde, il secondo è frutto di 300 anni di dominazione musulmana Moghul.

Dunque, il cambio di nome riporta il paese all’origine, recidendo ogni legame storico, prima con la dinastia imperiale islamica, poi con l’impero britannico che l’ha sostituita.

È una rivincita linguistica sul colonialismo, eppure non è un inedito nel quadrante, nei territori già occupati dalla corona inglese: il Bangladesh era il Pakistan orientale, il Myanmar è la Birmania di ieri, lo Sri Lanka si chiamava Ceylon.

Ciò che cambia è la forza impressa al colpo di spugna, nel paese più popoloso al mondo. Un chiaro segnale all’Occidente, non più egemone.

Smacco anche per Londra, che vede le sue illusioni di potenza archiviate dalla storia.

I 25 Paesi più a rischio default

La classifica di Bloomberg per il 2022.
Punteggio basato su quattro metriche.

Il debito sovrano è uno dei problemi attualmente principali.

In particolar modo, il rischio riguarda gli Stati che non hanno sovranità monetaria e/o hanno contratto debiti agganciando la propria valuta a quella estera (come l’Argentina con il dollaro americano).

Di recente è stata la piccola nazione asiatica dello Sri Lanka ad essere entrata ufficialmente in default per non aver pagato i 78 milioni di dollari di interessi dovuti, innescando una crisi senza precedenti.

Con i dati di Bloomberg, è stata elaborata la classifica dei 25 Paesi con il più alto rischio di mancato pagamento. Nei primi posto ci sono El Salvador, il Ghana e la Tunisia.

Il punteggio di vulnerabilità del debito sovrano è una misura composita del rischio di insolvenza di un Paese.

Si basa su quattro metriche: andamento dei titoli di Stato, spread di credito a cinque anni (swap spread), interessi passivi in percentuale del Pil e debito pubblico in percentuale del Pil.

Di seguito la classifica dei 25 Paesi più a rischio default per il 2022: