Sapelli: la crisi si ferma lasciando stare i tassi

Dal fallimento della Silicon Valley Bank alll’attuale situazione globale: ecco colpe e rischi.
Lucida analisi del professore su operato, Fed, Bce e Cina.

Il professor Giulio Sapelli è intervenuto su Il Giornale in merito alla recente crisi della Silicon Valley Bank e, più in generale, parlando di politiche monetarie adottate da Usa, Ue e Cina.

Quanto al fallimento della SVB (già affrontato anche qui), sostiene che questo nasca da due eventi critici: l’aumento dei tassi da parte della Fed e l’eccessiva concentrazione di titoli obbligazionari a lunga scadenza in portafoglio.

Più precisamente, le sue parole sono state le seguenti:

La mancata diversificazione degli investimenti è tipica dei manager pagati con stock option: tendono a produrre effetti leva altissimi. Non trascurerei, poi, l’effetto Cina, ossia la decisione di Xi Jinping di escludere dal consiglio del popolo i manager dell’industria hi-tech. Questo ha avuto un effetto dirompente su tutte le Borse mondiali. Il neo-maoismo di Xi Jinping è sempre stato accompagnato da grandi catastrofi economiche i cui effetti hanno raggiunto anche la Silicon Valley”.

Con i tassi bassi era necessaria una certa dose di spregiudicatezza per ottenere rendimenti elevati; e qui arriva il commento dell’economista, ricordando un monito mai nascosto:

I tassi negativi non stanno né in cielo né in terra ma tutti dicevano che andavano bene”.

Vero è che la Fed e la Bce hanno invertito repentinamente la politica monetaria. Su questo punto Sapelli, che è stato vicino ad essere Premier nel primo Governo gialloverde ma che ha poi ricevuto il veto di Mattarella, commenta così:

Chiamiamo inflazione una cosa che non è inflazione perché l’inflazione è l’aumento dei salari che supera la produttività, mentre i salari sono al livello più basso degli ultimi vent’anni. Chiamiamo inflazione un aumento dei prezzi delle materie prime alimentari ed energetiche, prima per effetto della pandemia che è stato un fallimento manageriale perché non si sapeva prevedere che, con migliaia di navi alla fonda, una volta ripresa l’attività sarebbero aumentati i prezzi dei noli marittimi e poi è arrivata l’aggressione russa all’Ucraina. Questa è una forma di monopsonio (accentramento della domanda in unico attore; ndr) come nella crisi petrolifera degli anni 70, una carenza di offerta. La Bce e la Fed non possono curare una inflazione da carenza da offerta con la politica monetaria. Bisogna aumentare la quantità di offerta e non agire sulla moneta altrimenti l’unica conseguenza sarà far fallire imprese e banche”.

Quando gli viene chiesto se “dopo dieci anni di tassi bassi non era necessario intervenire?”, il professore risponde come di seguito?

Non è con la moneta che si risolve il problema, ma con l’offerta. Bisogna aumentare le quantità offerte”.

C’è un rischio di contagio da questo fallimento. Si può fermare il circolo vizioso stretta sui tassi-fallimenti-recessione?

Per ora non c’è nulla di simile alla crisi del 2007-2008 che coinvolse anche assicurazioni e riassicurazioni. La speranza di bloccare la serie di rialzi è affidata a economisti come Fabio Panetta che ha criticato la politica monetaria all’interno della Bce. Ho fiducia anche nel segretario al Tesoro Janet Yellen affinché comprenda che questa politica non porta da nessuna parte. E poiché in America non esiste l’autonomia della banca centrale, una favola che ci raccontiamo in Europa, può indurre la Fed a fermarsi. E poi bisogna costruire una direzione diversa, ritornando alla divisione fra proprietà e controllo. Pagare i manager in azioni è dinamite, vuol dire avere sempre una crisi dietro l’angolo”.

Debito pubblico: la differenza sta nella sovranità

Debito pubblico: la differenza sta nella sovranità del debito.
Il problema sorge nel caso in cui manchi sovranità monetaria.

Il debito pubblico è costantemente al centro delle discussioni economiche odierne.

Fino a poco tempo addietro, tanto che scoppiò la crisi dei debiti sovrani, gli economisti consideravano che un indebitamento superiore al 90% del Pil fosse tossico per l’economia; ora, invece, cominciano a ricredersi.

A rivelarlo è il Wall Street Journal che riporta il parere di diversi esperti del settore, tra cui l’ex capo economista del Fmi Olivier Blanchard piuttosto che l’ex capo economista del dipartimento al Tesoro Usa Karen Dynan.

Ora la tesi che comincia a prendere campo è la seguente: una buona crescita economica e livelli di debito pubblico elevati possono convivere e sono persino desiderabili; infatti, se i rendimenti dei titoli sovrani restano al di sotto dei tassi di crescita economica, i governi possono continuare a emettere debito senza praticamente doverlo pagare.

Italia, Francia, Spagna e Regno Unito hanno infatti debiti pubblici che si avvicinano o superano il 100% del Pil; il Giappone super addirittura il 200% e gli Usa supereranno il 105%.

Rimangono contrari a quest’idea, invece, nella zona Euro. Il presidente della Bce Christine Lagarde, il mese scorso ha così ammonito la Francia:

Il crescente debito pubblico è motivo di preoccupazione, poiché riduce il margine di manovra fiscale in caso di recessione dell’economia”.

La commissione Ue le ha fatto eco avvertendo 8 Paesi membri (tra cui l’Italia, la Francia e la Spagna) del rischio di violare le regole del Patto di Stabilità, ricordando agli Stati che hanno un debito pubblico superiore al 60% che lo devono ridurre gradualmente.

Uno studio del Fmi pubblicato il mese scorso e che ha esaminato più di 400 episodi di crisi in 188 paesi tra il 1980 e il 2016, rivela che le economie avanzate affrontano un rischio sostanzialmente più elevato di entrare in crisi se il debito sovrano nei confronti di creditori stranieri supera il 70% del Pil. La soglia è invece pari al 30% per quanto riguarda le economie dei mercati emergenti.

Il problema, che probabilmente sfugge nello studio del Fmi, non è tanto il rapporto debito/Pil ma la proprietà del debito; è proprio perché si parla di “creditori stranieri” e, quindi, di debito non sovrano, che si hanno problemi.