Dal 18 al 22 settembre il parlamento indiano si riunirà in sessione straordinaria.
L’agenda dei lavori non è nota, ma spifferi di palazzo raccontano che in quei giorni sarà depositata la proposta ufficiale per il cambio di nome dell’India in “Bharat”, stando a quanto riporta Italia Oggi.
Nel corso del vertice, a Nuova Delhi, il nome “Bharat” ha sostituito (e non affiancato) il toponimo “India”.
È accaduto prima dell’evento, su un invito a cena agli ospiti, firmato da Droupadi Murmu, capo di stato del paese, che si è qualificata: «Presidente del Bharat».
Durante il G20, alla conferenza di apertura del summit, dove il posto di Modi recava la scritta “Bharat”.
Infine, in un documento diffuso dal portavoce del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito al governo, espressione del nazionalismo indù: il testo riguardava una riunione fra India e Asean (l’associazione dei paesi del sud est asiatico) e definiva Narendra Modi: «Primo ministro di Bharat».
Occhio, tutto ciò non è una mera trovata elettorale del premier indiano, al potere dal 2014 e atteso alle elezioni generali nel maggio 2024, è un fattore di natura geopolitica.
Il nome “Bharat” è già nella costituzione indiana, all’art. 1, assieme al più conosciuto “India”; è anche sui passaporti, ma non è mai stato usato fuori dal paese, nei consessi ufficiali.
A sancirne il debutto al G20 non è stato Modi, espressione della maggioranza, ma la presidente, rappresentante del paese.
Il termine è in sanscrito, deriva dagli antichi testi religiosi indù ed è presente anche nell’opera epica più rilevante della nazione, il “Mahabharata”.
Per il popolo indica l’India stessa, nella sua accezione più autentica, riferita alla religione dominante, ovvero l’induismo.
Anche “India” e “Hindustan” (dal persiano) sono nomi antichi della nazione, legati al fiume Indo che attraversa il paese, ma il primo si è imposto da Occidente, con l’arrivo di Alessandro Magno su quelle sponde, il secondo è frutto di 300 anni di dominazione musulmana Moghul.
Dunque, il cambio di nome riporta il paese all’origine, recidendo ogni legame storico, prima con la dinastia imperiale islamica, poi con l’impero britannico che l’ha sostituita.
È una rivincita linguistica sul colonialismo, eppure non è un inedito nel quadrante, nei territori già occupati dalla corona inglese: il Bangladesh era il Pakistan orientale, il Myanmar è la Birmania di ieri, lo Sri Lanka si chiamava Ceylon.
Ciò che cambia è la forza impressa al colpo di spugna, nel paese più popoloso al mondo. Un chiaro segnale all’Occidente, non più egemone.
Smacco anche per Londra, che vede le sue illusioni di potenza archiviate dalla storia.