Caro Chatbot, scrivi tu?

Quando la tecnologia tenta di sostituire la creatività.

Non ho più il controllo del mio tempo. Voglio essere più produttiva, più incisiva. Quando scrivo, voglio trascinare il lettore dentro le mie parole, tenerlo incollato alla pagina, costringerlo a restare fino alla fine, senza scampo. Voglio che arrivi all’ultima riga con il fiato corto e il cuore in gola.

Mi siedo alla scrivania. Ieri ho fatto pulizia: via il superfluo, spazio alle idee. Foglio bianco davanti a me, penna scorrevole tra le dita. Perfetto. Adesso scrivo.

Uno, due, tre minuti. O forse ore.

Niente.

La mia mente è un deserto. No, peggio. È piena di pensieri inutili e molesti. Devo fare la spesa. Dovrei mettermi a dieta. Ho pagato la bolletta?

Devo uscire da questo loop.

— E ti pare facile?

Lo dico al foglio bianco. Lui mi guarda, impassibile. Giudicante.

Poi, un lampo.

— Potrei chiedere un aiutino.

L’IA! Il miracolo tecnologico che salva gli scrittori in crisi. Il chatbot che tutto sa e tutto può.

— Io ci provo. Vediamo che ne esce.

Apro il laptop.

— Ciao, dammi un’idea brillante per un racconto!

L’IA non si fa attendere:

IA: Certo! Un matrimonio tra due giovani, ostacolato da un signorotto potente!

Rimango impietrita.

— Ma questi sono I Promessi Sposi!

L’IA non si scompone.

IA: Ok, allora… un gruppo di giovani rinchiusi in una casa per dieci giorni.

Sgrano gli occhi.

— Questo è Il Decamerone!

Silenzio. Guardo lo schermo. Lo schermo guarda me.

Forse un giorno l’IA scriverà romanzi migliori dei miei.

IA: Secondo le statistiche, il 72% dei lettori non noterà la differenza!

Sorrido, chiudo il laptop. Prendo la penna.

— Sì, ma io voglio scrivere per il restante 28%.

Sipario

Ma prima che si chiuda del tutto, voglio lasciarvi una mia riflessione.

Se persino uno scrittore navigato può cadere nella tentazione di farsi scrivere un’idea dall’IA, o addirittura un testo, cosa succede ai più giovani? A quelli che devono ancora scoprire il brivido della pagina bianca, il piacere di cercare la parola giusta, la soddisfazione di un’idea che nasce dal nulla e prende forma, il piacere di scervellarsi a trovare la soluzione ad una funzione matematica?

L’IA risponde veloce, è brillante, non sbaglia la grammatica (quasi mai). Ma può insegnare il pensiero critico? Può sostituire il percorso, gli errori, i fogli accartocciati e le notti insonni che trasformano un pensiero vago in una storia indimenticabile, registrare un pensiero mentre corri al lavoro, perché hai paura di scordarlo?

Forse il vero rischio non è che l’IA scriva al posto nostro. Ma che ci faccia dimenticare quanto sia bello farlo da soli.

E su questo, il chatbot non ha nulla da aggiungere.

GiùGiù Gramaglia: “Sul palco e davanti alla macchina da presa, porto sempre la mia Sicilia”

L’attore vigatese ripercorre la sua carriera tra aneddoti, incontri speciali e l’amore per il teatro.

Ci sono artisti che calcano il palcoscenico per mestiere e altri che lo fanno per passione. GiùGiù Gramaglia appartiene senza dubbio a entrambe le categorie: con oltre cinquant’anni di carriera, ha vissuto il teatro come un viaggio in continua evoluzione, partendo dalle recite parrocchiali fino ad approdare ai set di grandi produzioni televisive come Il Commissario Montalbano e Il Capo dei Capi.

Oltre alla sua esperienza davanti alla macchina da presa, GiùGiù continua a portare in scena il teatro con interpretazioni intense, come quelle nei testi di Pirandello, e a tenere viva la memoria culturale siciliana attraverso i Percorsi d’Inchiostro, un omaggio alla Vigata letteraria di Andrea Camilleri. In questa chiacchierata ci svela i momenti più emozionanti della sua carriera, i ruoli che più lo hanno segnato e i segreti del mestiere.

Come è nata la tua passione per il teatro e la recitazione?

Innanzitutto, è un piacere incontrare una persona così intraprendente! Questo mi aiuta anche a sciogliermi un po’, visto che di natura sono piuttosto schivo e riservato. La mia passione per il teatro e la recitazione è nata nel tempo, più di cinquant’anni fa. Ho iniziato con le classiche recite parrocchiali e gli spettacoli organizzati dalle suore dell’oratorio. All’epoca, lo ammetto, il teatro aveva per me anche altri fini—come stare in mezzo alle ragazzine—quindi lo vivevo in modo diverso. Ma dentro di me cresceva qualcosa di più profondo, un vero interesse per la scena. Col tempo ho capito che forse il palcoscenico era il mio posto, il luogo dove potevo davvero esprimermi.

Quali sono state le esperienze teatrali che più hanno influenzato la tua carriera?

Il teatro mi ha permesso di raggiungere traguardi ambiziosi e di vivere esperienze fondamentali per la mia carriera. Una delle più significative è stata la celebrazione del centocinquantesimo anniversario della nascita del Premio Nobel Luigi Pirandello, che mi ha dato l’opportunità di portare le sue opere in scena negli Istituti Italiani di Cultura di città come Malta, Stoccolma e Oslo.
Recitare Pirandello significa immergersi in un universo complesso, in cui l’identità e la verità si intrecciano continuamente. Ho avuto l’onore di interpretare La verità, una novella che confluisce ne Il berretto a sonagli, affrontando il tema della verità come concetto mai assoluto, ma sempre relativo, condizionato dallo sguardo degli altri.
Un’altra esperienza teatrale fondamentale è stata Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, che ho portato in scena nel 1995-96 interpretando Eddie Carbone. La mia interpretazione fu molto apprezzata, tanto che il video dello spettacolo fu mostrato anche a Michele Placido, che all’epoca stava valutando di mettere in scena lo stesso testo. Negli anni ’90, però, non c’erano ancora le innovazioni tecniche di oggi e si temeva che un’opera così complessa potesse non ricevere la giusta risposta dal pubblico. Alla fine, la nostra versione fu accolta con entusiasmo e divenne uno dei cavalli di battaglia teatrali di Michele Placido.

“Essendo l’unico empedoclino ad aver lavorato su un testo del tuo concittadino Andrea Camilleri, come descriveresti questa esperienza?” 

L’incontro con il maestro Andrea Camilleri è stato una svolta epocale nella mia vita, sia personale che professionale. Ha rappresentato un’esperienza unica, che mi ha portato a essere—se non proprio l’unico, perché c’è un altro amico che ha lavorato su alcuni suoi testi—ma certamente l’unico empedoclino ad aver preso parte alle riprese de Il Commissario Montalbano.
Ho avuto l’onore di partecipare a due episodi: Il senso del tatto nel 2000 e Una faccenda delicata nel 2016. Questa esperienza ha cambiato profondamente sia la mia vita artistica che quella personale, aprendo scenari meravigliosi. Credo che chiunque faccia questo mestiere sogni di vivere almeno una volta un’opportunità del genere.
Oltre a Montalbano, ho avuto anche la possibilità di lavorare su altri adattamenti dei testi di Camilleri, come la serie C’era una volta Vigata, girata in costume a Scicli. È stata un’esperienza straordinaria, che mi ha permesso di conoscere persone meravigliose, tra cui il regista Alberto Sironi, con cui ho avuto il piacere di collaborare.

Puoi raccontarci delle tue esperienze sul set de “Il Commissario Montalbano” e “Il capo dei capi”?

Come dicevo, l’esperienza su Il Commissario Montalbano è stata eccezionale. Mi sono ritrovato, quasi dal nulla, catapultato sul set di una produzione di altissimo livello, lavorando fianco a fianco con professionisti di grande calibro come Luca Zingaretti e tutto il cast. Venivo dalla “polvere” di un palcoscenico di periferia e trovarmi improvvisamente immerso in una realtà così importante è stato incredibilmente gratificante.
Anche la mia esperienza ne Il capo dei capi è stata molto significativa. Ancora oggi, quando le persone mi incontrano, ricordano con grande impatto la scena che ho girato in quella serie. Interpretavo un tassista, il classico “tuttofare” all’interno di un contesto corrotto. A volte questa cosa mi lascia un po’ perplesso, perché la gente tende a identificare gli attori con i loro personaggi, specialmente quando si raccontano storie legate alla realtà siciliana. Ma fa parte del gioco: il pubblico si affeziona a certi ruoli e rivede in essi frammenti della propria esperienza.

Qual è il tuo metodo per prepararti a un nuovo ruolo, sia teatrale che cinematografico?

Quando si tratta di teatro, tutto parte dalla comprensione del personaggio. È fondamentale immergersi nella sua realtà caratteriale, cercando di coglierne la semplicità, le sfumature e la complessità. Il mio approccio consiste nel vivere il personaggio in prima persona, facendolo diventare parte di me per tutta la durata della preparazione.
Ad esempio, quando ho interpretato Carbone, per un certo periodo mi sono sentito proprio come lui: vile, arrogante, vigliacco. Era un personaggio con tratti negativi molto marcati, ma questo è il bello del mestiere dell’attore: saper entrare completamente in un ruolo e, allo stesso tempo, avere la capacità di spogliarsi da quello stesso ruolo in un attimo per passare a un’altra storia, a un’altra anima.

Quali consigli daresti ai giovani che desiderano intraprendere la carriera teatrale oggi?

“Il consiglio che mi sento di dare ai giovani che vogliono intraprendere la carriera teatrale è, prima di tutto, quello di essere sempre se stessi. È fondamentale mantenere i piedi per terra, senza montarsi la testa, e capire che in questo mestiere bisogna dimostrare qualcosa ogni giorno. La responsabilità, la serietà e la professionalità sono qualità indispensabili, perché affrontare il palcoscenico o la macchina da presa non è affatto semplice come potrebbe sembrare. Recitare non significa solo salire sul palco e dire battute, ma richiede dedizione, studio e sacrificio.
Ricordo bene gli inizi, negli anni ’70, quando partecipavamo alle famose “Feste dello Studente”. Preparavamo uno spettacolo per un intero anno, provando senza sosta per andare in scena il 5 o 6 gennaio. Ricordo le nottate passate a montare le scenografie nei cinema, subito dopo l’ultimo spettacolo di mezzanotte. Lavoravamo con pannelli enormi, che con il sole e la pioggia si gonfiavano e diventavano ancora più pesanti, ma nulla ci fermava. Eravamo giovani, pieni di entusiasmo, e la fatica passava in secondo piano: le luci del palcoscenico ci ripagavano di ogni sforzo, riempiendoci di adrenalina e soddisfazione.
Ecco perché ai giovani dico: bisogna essere disposti a fare sacrifici, perché senza sacrificio non si arriva da nessuna parte. Io stesso, tante volte, ho dovuto lasciare la mia famiglia per le prove o per gli spettacoli. Ma se si ama davvero questo mestiere, ogni rinuncia diventa parte di un percorso che, alla fine, regala emozioni uniche.”

Ci sono nuovi progetti teatrali o cinematografici a cui stai lavorando attualmente?

“Attualmente sto lavorando a un nuovo film, in uscita al cinema a fine marzo, insieme alla compagnia dei fratelli Sansoni. Il film si intitola E poi si vede dove interpreto un personaggio semplice ma dal carattere scorbutico, quello che in siciliano definiremmo un po’ “scostumato”. È un usciere di concorso, una figura simpatica che mi ha subito divertito e coinvolto in questa nuova avventura cinematografica.
Nel cast ci sono anche grandi nomi come Donatella Finocchiaro, Domenico Centamore ed Ester Pantano, con cui ho avuto già il piacere di lavorare in passato, ad esempio ne Il Commissario Montalbano. Ricordo con particolare affetto Domenico Centamore, con cui ho condiviso diverse esperienze sul set, tra cui I fantasmi di Portopalo.
Quest’ultimo è stato un progetto molto intenso ed emozionante, con Beppe Fiorello, che raccontava la tragica storia del naufragio avvenuto la vigilia di Natale al largo di Portopalo di Capo Passero, in cui persero la vita circa 300 migranti. Un’esperienza toccante, che mi ha lasciato un segno profondo.

C’è un episodio o un aneddoto particolare della tua carriera che ti piacerebbe condividere con noi?

Per quanto riguarda gli aneddoti legati alla preparazione di un film, ricordo con piacere l’incontro con Beppe Fiorello durante le riprese de I fantasmi di Portopalo. Sono stato convocato per interpretare un pescatore, un personaggio che faceva parte della comunità di marinai coinvolti in questa drammatica vicenda.
Prima di girare, ci hanno fatto fare delle prove per immergerci completamente nel ruolo. Abbiamo trascorso un’intera giornata in mare, vivendo l’esperienza della navigazione e della pesca come veri pescatori. Ricordo che il mare era un po’ mosso e qualcuno ha dovuto “lasciare il fegato”, ma è stata un’esperienza incredibile, che mi ha fatto comprendere davvero la durezza e la bellezza di quel mestiere.
Per quanto riguarda invece il teatro, la preparazione di un personaggio segue sempre lo stesso principio: bisogna prima di tutto capire ciò che si sta andando a recitare. Se non si comprende il testo, non si può interpretarlo nel modo giusto. Questo vale in particolare per Pirandello: se non si afferra la sua filosofia e la profondità dei suoi concetti, non solo diventa difficile recitare, ma persino memorizzare le battute. L’attore deve entrare nel mondo del personaggio, interiorizzarlo e farlo suo, solo così può restituirlo in modo autentico al pubblico.

Un altro aneddoto che ti voglio raccontare è il mio primo incontro con Andrea Camilleri legato al mio debutto in una sua opera, con l’episodio Il senso del tatto de Il Commissario Montalbano. Dopo aver terminato le riprese, il mio caro amico, il professore Biagio Milano, orgoglioso di me, volle presentarmi al maestro.
Un giorno mi disse: “Vieni, ti voglio far conoscere Camilleri”. Così ci avvicinammo a un bar dove lui era seduto con un’altra persona, intenti a conversare davanti a un caffè. Dopo un po’, il suo interlocutore si alzò e andò via, e poco dopo arrivò il cameriere con un bicchiere di latte di mandorla, servito in uno di quei bicchieri a forma di cono con la base stretta.
A quel punto, Biagio prese la parola: “Maestro, è un piacere presentarvi GiùGiù Gramaglia, ha appena partecipato a una fiction del Commissario Montalbano”. Camilleri sollevò lo sguardo e, istintivamente, allungammo entrambi la mano per salutarci. Involontariamente, mentre facevo un passo avanti, toccai la base del tavolo, facendo oscillare pericolosamente il bicchiere. Ci trovammo così, mano nella mano, a guardarci negli occhi, mentre con l’altro occhio controllavamo il bicchiere che, per fortuna, rimase in equilibrio.
Qualche tempo dopo, lo rividi nuovamente al bar e decisi di metterlo alla prova per vedere se si ricordava di me. “Buongiorno, maestro”, gli dissi. “Si ricorda chi sono?”. Lui mi guardò e rispose: “Mi ricordo, mi ricordo… ho visto l’anteprima del film”. Per un attimo pensai che si ricordasse di me per il rischio che avevo corso di versargli addosso il bicchiere, invece mi riconosceva per il mio lavoro. Fu un’emozione unica.

Ultima chicca che ti do in anteprima e ti lascio il l’indirizzo dove trovi tutti i lavori che ho fatto, 50 anni sono davvero tanti. https://www.giugiugramaglia.altervista.org

Quest’anno, in occasione del centenario della nascita di Andrea Camilleri, sono impegnato a Porto Empedocle in un progetto speciale che celebra il legame tra lo scrittore e la sua terra. Insieme a un gruppo di amici attori, conduco “i Percorsi di Inchiostro”, un’iniziativa che accompagna i visitatori alla scoperta della Vigata letteraria, quella reale che ha ispirato i suoi romanzi.
Durante il percorso, non ci limitiamo a mostrare i luoghi, ma li arricchiamo con momenti teatrali, portando in scena frammenti tratti dai libri e dalle fiction. A differenza della Vigata cinematografica, ci concentriamo sui luoghi autentici della vita di Camilleri: il bar dove faceva colazione, il caffè dove incontrava gli amici, la storica Trattoria da Enzo, tuttora esistente.
Tra le tappe più suggestive c’è anche il vecchio magazzino di legnami, che ha ispirato La concessione del telefono, insieme ad altri scorci di Porto Empedocle che hanno lasciato un segno nelle sue opere. È un viaggio emozionante, che permette ai visitatori di immergersi nel mondo di Camilleri attraverso i suoi luoghi, le sue parole e le atmosfere che hanno dato vita ai suoi racconti.

Il Mondo di Ketty – Sei felice?

Tra sogni assoluti e attimi perfetti: una riflessione sulla felicità.

5:45. Un suono dolce ma insistente riesce a strapparmi dalle cullanti ali di Morfeo. Apro gli occhi e spengo la sveglia. Bevo—mai abbastanza, ma meglio di niente.

Inizia la mia routine quotidiana: prendo da dove l’avevo appoggiato ieri sera ciò che sarà il mio outfit di oggi e, lentamente e pigramente, mi avvio verso il bagno. Nel tragitto, la mia cagnolina continua a saltarmi addosso; rischio di pestarle una zampa—il suo affettuoso buongiorno. Poi incontro le braccia di mio marito, già sveglio da almeno quindici minuti prima di me. Appoggio il mio viso assonnato, ancora incorniciato dai riccioli scomposti della notte appena trascorsa, sul suo torace ampio e accogliente. E quello è il suo di buongiorno.

La doccia e il telo caldo appoggiato al termo. Il bagnoschiuma profumatissimo abbinato all’eau de toilette sul comò (che, magicamente, appena ti tamponi la pelle fuori dalla doccia—puff! Evaporato). La skincare, il dentifricio, le lenti a contatto (altrimenti, chi vede cosa?), il make-up, il refresh per i miei capelli (in vecchiaia sono diventati ricci, come se fosse una grazia concessa a un condannato al patibolo).

Tutto questo, e molto altro, mi attende prima che io possa mettere il naso fuori casa per correre al lavoro.

Già, il lavoro. Quello che, da fine 2020, fa parte della mia routine. Mi fiondo in stazione, salgo sul treno delle 7:17. Arriverò in ritardo. Anche questa è routine.
In quell’ora che mi separa dal timbro del cartellino, cuffie nelle orecchie e musica da canticchiare, oppure sintonizzata su RDS, a sorridere da sola. Tanto, sempre sola sei, anche dentro a un treno strapieno nell’ora di punta. Mi aiuta la radio, mi aiutano le canzoni, mi aiutano i podcast.

Oggi mi sento bene, mi sento viva. Non come ieri. Ieri non era un buon giorno.
Oggi è primavera.

Tesso la vita per sette ore e spiccioli, riapro la porta di casa che manca poco alle 17.
Sono sveglia da dodici ore e la mia giornata volge al termine. Per poi ricominciare.

Quindi, per tornare alla domanda che stamattina, presto—prima delle 7 (ma non ha dormito, per venire da me a pormela?)—si è insinuata nella mia mente, prepotente, insolente, tagliente, sfacciata: sei felice?

FELICITÀ

Io ho due modi di vedere la felicità.

La prima è una felicità relativa, la più gestibile dal punto di vista emozionale, quella che si nasconde nelle piccole cose.
La trovi dietro l’angolo, dentro un sorriso sconosciuto, un buongiorno squillante, un messaggio inaspettato, un complimento sincero, il raggiungimento di un piccolo obiettivo, il resistere a un dolce.
La trovo nelle chiamate dei miei figli, nel naso umido del mio cane che si struscia sul dorso della mia mano.
La trovo dentro un “stai bene con questo taglio di capelli”, un “mi è piaciuto quello che hai scritto”, un “meno male che ci sei”, un “ti ci devo portare” o un “mi accompagni”.
La trovo nei colori di un’alba che profuma di salsedine, in un languido tramonto confortato da un caldo abbraccio.

Poi c’è la felicità assoluta.
Questa felicità io, in realtà, non so cosa sia.

Penso che sia più un’idea enfatizzata che una reale e tangibile sensazione.
Oppure ricerchiamo tanto questa felicità assoluta che non ci accorgiamo di avere già dentro di noi quella relativa. E, di conseguenza, non ci sentiamo appagati.

La mia conclusione? Nessuna. Solo Carpe Diem.
Perché solo se si ha il coraggio si può rischiare di essere felici.
Al limite, hai solo fatto esperienza.

Arancina o arancino? Il mistero più croccante della Sicilia

Tra storia, leggende e sapori, la disputa più deliziosa della Trinacria.

Ci sono battaglie che segnano la storia dell’umanità: Atene contro Sparta, Coppi contro Bartali, cane contro gatto… e poi c’è la madre di tutte le dispute siciliane: arancina o arancino? Un duello epico tra Palermo e Catania che va avanti da secoli, senza vincitori né vinti, ma con un’unica certezza: alla fine, l’importante è mangiarla. Perché che sia rotonda o a punta, “accarne o abburro”, al nero di seppia, al pistacchio, al cioccolato o come tu la desideri e sogni, l’arancina è un capolavoro di ingegneria culinaria: croccante fuori, morbida dentro, un esplosione  di sapore… e potenzialmente letale per le camicie bianche, perché dovrà essere mangiata rigorosamente con le mani.

La diatriba tra arancina e arancino ha radici storiche e linguistiche profonde, legate alle tradizioni culinarie di Palermo e Catania.

Un viaggio tra storia e leggenda

L’arancina/arancino affonda le sue radici nell’epoca araba (IX-XI secolo), quando in Sicilia il riso era già diffuso grazie agli Arabi, che lo cucinavano con zafferano e spezie. Tuttavia, la versione impanata e fritta sembra essere un’invenzione successiva, probabilmente nata per rendere il riso più trasportabile e conservarlo meglio, soprattutto per i viaggi lunghi o le giornate di lavoro nei campi.

Palermo: l’arancina e il frutto dell’ispirazione

A Palermo, patria della versione tonda, il nome arancina è femminile perché si rifà al frutto da cui prende ispirazione: l’arancia. Il suo aspetto rotondo e dorato ricorda proprio il frutto degli agrumi siciliani, e la grammatica italiana segue questa logica: arancia → arancina.

Catania: l’arancino e la forma della tradizione

A Catania, invece, la versione più diffusa è quella con la punta, che secondo alcuni sarebbe un omaggio all’Etna. Qui il nome è arancino, maschile, perché si rifà alla parola arancio, l’albero. La regola linguistica vuole che il frutto sia femminile (arancia), ma l’albero maschile (arancio), e da questo deriverebbe il nome catanese.

Chi ha ragione?

Se chiedi a un palermitano, ti dirà che la Crusca ha stabilito che il termine corretto è arancina. Se chiedi a un catanese, ti risponderà che arancino suona meglio.

L’accademia della crusca, “Super partes” ha decretato esatte entrambe le versioni e pace in terra tra gli uomini siciliani .

Che alla fine, è il sapore che conta.

La verità?

Entrambe le versioni sono deliziose, e chiunque provi a risolvere la disputa finisce per dimenticarsene dopo il primo morso!

La ricetta dell’arancina/arancino, che tu la preferisca tonda o a punta, ecco come prepararla a casa!

Ingredienti (per circa 10 pezzi):

  • 500 g di riso (tipo Arborio o Carnaroli)
  • 1 bustina di zafferano
  • 1 litro di brodo vegetale
  • 50 g di burro
  • 100 g di parmigiano grattugiato
  • 200 g di ragù di carne (oppure besciamella e prosciutto per la versione “al burro”)
  • 150 g di piselli (opzionale per la versione al ragù)
  • 100 g di Provola dolce
  • 2 uova
  • Pangrattato q.b.
  • Farina q.b.
  • Acqua q.b.
  • Olio di semi per friggere

Procedimento:

  • 1. Cuoci il riso nel brodo con lo zafferano fino a completo assorbimento, poi mantecalo con burro e parmigiano. Stendi il riso su una teglia e lascia raffreddare.
  • 2. Prepara il ripieno: ragù di carne con piselli per la versione classica, oppure besciamella e prosciutto per la variante al burro.
  • 3. Prendi una porzione di riso, appiattiscila sulla mano, aggiungi un cucchiaio di ripieno più un pezzetto di provola(che fa filare le arancine) e richiudi formando una sfera (o un cono, se vuoi onorare la tradizione catanese!). Questo è il passaggio che definisce la mano da vero artista!
  • 4. Passa ogni arancina/arancino nell’emulsione di acqua e farina, oppure nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato.
  • 5. Friggi in olio caldo fino a doratura e lascia asciugare su carta assorbente.

P.s. per sapere quando l’olio raggiunge la giusta temperatura, non serve il termometro alimentare, basta inserire la punta di uno stuzzicadenti in legno, ti accorgerai che se fa le bollicine, puoi inserire le arancine.

E tu, da che parte stai?

Adesso tocca a te! Sei del team arancina o arancino? Preferisci la versione classica, al burro o una variante più creativa? Raccontalo nei commenti e, soprattutto… buon appetito.

Festa del papà contro festa della mamma: chi fa girare di più l’economia?

Ecco il confronto tra origini, tradizioni e marketing.
Vi ci rispecchiate?

Ogni anno, la festa della Mamma e la festa del Papà riempiono le vetrine dei negozi e i social con idee regalo e messaggi affettuosi. Eppure, dietro la celebrazione dell’amore dei figli, si nasconde una realtà interessante: l’impatto commerciale di queste due ricorrenze è tutt’altro che equilibrato. Mentre la Festa della Mamma genera un vero e proprio boom di vendite e campagne pubblicitarie, quella del Papà rimane più in sordina. 

Origini:

La Festa della Mamma: ha origini antiche, ma la versione moderna nasce nel XIX secolo negli USA. In Italia si celebra la seconda domenica di maggio.

La Festa del Papà: ha radici religiose in molti Paesi, spesso legata a San Giuseppe. In Italia si celebra il 19 marzo, mentre in altre nazioni varia.

Due feste, due sapori: il cuore (e il portafoglio) tra mamma e papà

Una cosa che accomuna la Festa della Mamma e quella del Papà, è il desiderio di celebrare l’amore familiare, senza ogni dubbio. Ma mentre la seconda domenica di maggio si riempie di fiori, cuori e dolcezza, il 19 marzo porta con sé il profumo di frittelle e antiche tradizioni. Due feste che, pur condividendo l’intento affettuoso, hanno un impatto molto diverso sul mercato.

Per la Festa del Papà, in Italia, la tavola si riempie di zeppole di San Giuseppe, fritte o al forno, ripiene di crema e amarene, un omaggio alla figura paterna legata alla tradizione religiosa. La Festa della Mamma, invece, ha meno vincoli culinari, ma spesso si accompagna a dolci più delicati, come le torte alla frutta o alla panna, simbolo di leggerezza e dolcezza materna.

Ma non è solo il palato a fare la differenza. Il mondo del commercio risponde in modo molto diverso a queste due ricorrenze: la Festa della Mamma è un evento di punta per il marketing, con campagne pubblicitarie emozionali e vendite record di fiori, gioielli e prodotti beauty. La Festa del Papà, pur essendo sentita, riceve meno attenzione pubblicitaria e vede una scelta di regali più orientata alla tecnologia, agli accessori o agli alcolici.

Perché questa disparità? È una questione culturale o commerciale? Scopriamo insieme come e perché queste due celebrazioni influenzano il mercato in modo così diverso.

Il valore oltre il mercato

Alla fine, che si tratti di una zeppola dorata o di una fetta di torta soffice, di un mazzo di fiori o di un orologio elegante, il vero valore della Festa della Mamma e della Festa del Papà non si misura nelle vendite, ma nei gesti. Perché dietro ogni regalo, piccolo o grande, c’è il desiderio di dire “grazie” a chi ci ha dato amore senza chiedere nulla in cambio.

L’amore che non si vende

E forse è proprio questa la vera differenza tra le due feste: non tanto il modo in cui il mercato le tratta, ma il modo in cui ognuno di noi sceglie di celebrarle. Perché, al di là delle strategie pubblicitarie e delle tendenze d’acquisto, più dei fiori o degli orologi, restano i ricordi: il cucchiaio affondato nella crema delle zeppole, le dita sporche di zucchero, il profumo di una torta che si raffredda sul davanzale. E in quei piccoli gesti, in quei sapori intrecciati alla memoria, si nasconde il regalo più grande: l’amore, quello vero, che non ha prezzo e non ha bisogno di un’occasione per essere celebrato.