Pendolari, senza buoni pasto e con lo stipendio da fame: l’altra faccia del pubblico impiego.
Lavoro in una scuola pubblica, sono una collaboratrice scolastica. Sono una dipendente statale, un’entità mitologica che, a quanto pare, si nutre d’aria e si sposta per osmosi, senza diritto ad incentivi, con uno stipendio che non basta per vivere dove lavoro, costretta a fare la pendolare ogni giorno perché gli affitti sono troppo alti.
Mi chiedo spesso: siamo davvero tutti uguali nel pubblico impiego? Perché alcuni lavoratori ricevono riconoscimenti e tutele, mentre altri – come il personale ATA – vengono trattati come “dipendenti di serie B”?
Noi collaboratori scolastici siamo le prime persone ad arrivare a scuola e spesso le ultime ad andare via. Garantiamo sicurezza, igiene, sorveglianza, all’occorrenza diventiamo infermieri e psicologi, mamme e papà non smettiamo mai di esserlo. Ma nonostante questo, viviamo una condizione di invisibilità e precarietà. Senza buoni pasto, con stipendi che non tengono conto del caro vita, soprattutto al Nord, e nessun incentivo alla mobilità o al trasferimento, siamo dipendenti pubblici, eh, mica volontari.
E non solo: mentre altri dipendenti pubblici hanno sconti per musei, teatri, eventi culturali, noi no. Nemmeno quello. Come se il nostro ruolo non fosse abbastanza “culturale” da meritarselo.
E allora diciamolo chiaramente: lavorare nella scuola non dovrebbe significare vivere in condizioni di sacrificio permanente. Meritiamo rispetto, riconoscimento e diritti. Perché senza di noi, la scuola non funziona. E senza dignità, il lavoro pubblico perde il suo senso più profondo.
Questo articolo è nato anche da uno sfogo personale, dopo aver ricevuto due emolumenti mensili consecutivi con oltre circa 150 euro in meno. Senza spiegazioni chiare – sono convinta che ci sono-, quasi senza preavvisi, senza alcuna considerazione per chi, ogni giorno, garantisce il funzionamento delle scuole.
I sindacati? Sì, qualcosa si muove, almeno sulla carta. L’Anief, ad esempio, ha chiesto al governo di introdurre buoni pasto da 13 euro al giorno anche per noi collaboratori scolastici, come già avviene per altri dipendenti pubblici in smart working (fonte: anief.org).
Anche la FLC CGIL si è fatta sentire, chiedendo il riconoscimento dei buoni pasto per tutto il personale della scuola, soprattutto per chi – come noi ATA – resta a scuola fino al pomeriggio senza alcun servizio mensa o indennità (fonte: flcgil.it).
Persino i DSGA, i Direttori dei Servizi Generali e Amministrativi, hanno lanciato una petizione per chiedere stipendi più equi e l’introduzione dei buoni pasto per tutto il personale ATA (fonte: orizzontescuola.it).
Ma cosa si è ottenuto finora? Poco, pochissimo. Il Ministero dell’Istruzione, infatti, non sembra intenzionato a concedere questi diritti. Le trattative vanno avanti, ma i risultati si fanno attendere (fonte: pmi.it).
Intanto, le nostre buste paga si alleggeriscono e il riconoscimento rimane un miraggio.
E allora parliamone. Raccontiamolo. Perché il cambiamento inizia anche da chi ha il coraggio di dire: basta invisibilità.