Quando è arrivata quella convocazione, era solo per una settimana. Una supplenza da collaboratore scolastico in un liceo in pieno centro a Milano. Non sapevo cosa mi aspettasse, né quanto sarebbe durata davvero. Ero inconsapevole. Spaesata. Abituata a ben altri ritmi, ben altre strade, altri orizzonti.
All’inizio mi ha ospitata mio cugino a Varese, mentre cercavo una sistemazione nel caso si fosse prolungato il contratto. Ogni mattina era un’avventura: sbagliavo treni, orari, direzioni. Mi sentivo una comparsa in un film girato troppo in fretta, con dialoghi e tempi che non capivo. Non lo sapevo nemmeno io cosa fosse giusto fare, ma una cosa la sapevo: dovevo provarci.
Così, a 52 anni, sono rimasta. Con una valigia piena di vestiti, aspettative e sensi di colpa.
Perché mentre io prendevo il treno dell’indipendenza economica, a casa qualcosa si scomponeva. Mio marito, con il suo lavoro a cui davo una mano. Mia figlia autistica, che stava concludendo la triennale e che aveva ancora bisogno di me. I miei genitori, anziani, lontani. E quel Sud che mi chiamava con la voce del dovere ma anche del piacere, della normalità mentre il Nord mi seduceva con quella dell’opportunità.
Ma a quell’indipendenza, conquistata tardi e con fatica, non volevo rinunciare. Non potevo.
Il rito del pendolare milanese
Diventare pendolare a Milano è un po’ come iscriversi a una setta: non capisci bene le regole, ma intuisci che devi adattarti in fretta. I treni partono in orario solo quando tu sei in ritardo, le coincidenze si chiamano così perché raramente accadono, e i binari cambiano più velocemente dell’umore di un capotreno sotto stress.
All’inizio ci provi con il sorriso: ti dici che è solo una fase, che presto saprai distinguere un regionale da un intercity senza consultare l’oracolo di Trenitalia. Ma poi capisci che la vera sfida non è arrivare a destinazione: è conservare un minimo di dignità mentre cerchi un posto libero tra spintoni e zaini nel vagone del cosiddetto spostapoveri e negli occhi ancora quell’ultima alba sul mare africano.
Un giorno, tanto per non farmi mancare nulla, salii su un treno che faceva la stessa tratta del solito, ma non fermava alla stazione dove dovevo scendere, vicino casa di mio cugino. Mi accorsi che era una prima classe – cosa che ancora oggi non so spiegarmi bene – e, invece di cambiare carrozza, chiesi al controllore se potevo fare l’integrazione. Lui guardò il mio biglietto, poi mi guardò come si guarda un cucciolo bagnato e disse: “Signora, questo treno non si ferma dove deve andare lei”. La mia faccia deve aver detto tutto, perché con grande pazienza mi spiegò che avrei dovuto scendere alla prima fermata utile e aspettare il treno successivo. Quando arrivammo, mi fece scendere quasi come si accompagna una persona smarrita, raccomandandomi mille volte di non allontanarmi dalla banchina e di salire solo sul treno giusto. Sarò sembrata una rinco un po’ anziana a quel giovane controllore, ma almeno non mi ha lasciata finire in Svizzera.
Ogni mattina è un piccolo trasloco: borsa, pranzo, documenti, speranze. E ogni sera è una maratona verso casa, quando la stanchezza ti entra nelle ossa e ti chiedi se tutto questo abbia senso. Ma intanto vai, perché la vita del pendolare non ha pause. Ha solo fermate.
E mentre guardi scorrere la periferia dal finestrino, pensi a chi sei diventata: una donna del Sud, trapiantata al Nord, che ha imparato a leggere i tabelloni con la rapidità di un broker di Wall Street e a lottare per una manciata di minuti come se fossero oro.
Il primo impatto è quello culturale.
Mentre a casa, al Sud, il tempo si prende il suo tempo, qui il tempo è cronometro. Al Sud il treno in ritardo è una scocciatura prevista anzi normale; al Nord è una tragedia da esposto al sindaco. Tu arrivi con la valigia, la nostalgia e un sorriso disarmato, e ti ritrovi nel mondo delle app per controllare i ritardi in tempo reale, dei passaggi sotterranei infiniti, delle scale mobili e dal fiume di persone che si spostano insieme a te.
Il costo umano.
Ciò che ho lasciato a casa, un intreccio di affetti sospesi e una pigra e felice normalità.
Ogni telefonata era un misto di sollievo e nostalgia. “Tutto bene”, dicevamo tutti ma non è mai la verità assoluta. Il cuore, il mio, si divideva tra due regioni. Da un lato la voglia di autonomia, quella fame di dignità economica che non ha età; dall’altro la voce della coscienza, che ti sussurra che forse non sei dove dovresti essere.
Eppure non mi sono mai sentita egoista. Perché quel treno l’ho preso anche per loro. Per dimostrare a mia figlia che si può fare, anche quando sembra tardi. Per portare a casa un pezzo di futuro, anche se conquistato al prezzo della distanza. Per dire ai miei genitori che quella figlia, quella “picciridda” che avevano cresciuto con amore, era diventata una donna che non aveva paura o non aveva tempo per percepire quella paura.
E adesso?
Oggi siamo tutti e tre al Nord. Io, mio marito, mia figlia. Una famiglia siciliana trapiantata nell’asfalto lombardo, con l’accento che non ci lascia mai e una valigia che, anche se disfatta, non si chiude del tutto. Lavoriamo. Ci siamo adattati. Abbiamo imparato a decifrare i codici del grande Nord senza smettere di essere noi.
Eppure non sappiamo cosa faremo. Restare? Tornare? Provare a dare a mia figlia una stabilità qui, dove finalmente ha trovato un lavoro, una piccola autonomia, una nuova dimensione? O cedere al richiamo delle origini, della terra che ci manca ogni giorno, della luce che qui non c’è?
Forse la risposta non esiste. Forse siamo destinati a vivere tra due mondi, come tanti altri. Con il cuore a sud e la testa a nord. O forse è proprio questa la nostra casa: quel binario intermedio in cui si cresce, si lotta, si ama, si sbaglia treno e si ricomincia.
A tutti i pendolari del Sud, quelli veri, quelli che ogni mattina partono e ogni sera si ritrovano stanchi ma vivi: siamo una razza strana, ma tenace. E anche se ci perdiamo ogni tanto, sappiamo sempre dove trovare la strada di casa. Anche fosse solo nel cuore.